Non mi è mai stato chiesto un post sugli attacchi di panico. È un fatto interessante perché gli attacchi di panico sono un problema molto diffuso in questi ultimi anni, hanno provocato grandi difficoltà e sofferenze in tante persone, godono di una circostanziata scheda diagnostica anche nel DSM V e, mi è stato fatto notare – molti scrittori esordienti o meno li hanno messi al centro di un romanzo recente. Mi si dice Marco Candida, Christian Fascella, e anche il Livio Romano di qualche post fa. Me li procurerò tutti – sono curiosa di scoprire quanto è sfruttata un’occasione clinica che come poche altre ha un grande potenziale narrativo, e allo stesso tempo è così largamente fraintesa.
Attacchi di panico, fa pensare ai più a una declinazione parossistica di una banale vigliaccheria. Non se ne chiede lettura, come si fa a cicli regolari per l’anoressia per i disturbi di personalità in specie di marca antisociale (“fai un post su Breivik? Fai un post sui femminicidi?) perché tutto sommato non sono avvertiti come davvero pericolosi socialmente. Hanno anzi una sorta di odore puerile, mancano, per dire, della dignitosa gravità della depressione: rispetto ad altre psicopatologie sono cioè antiestetici, perché specie non sapendo di che si tratta, sono mentalmente rappresentati con una fumettistica fenomenologia della cagarella. Si pensa a tremiti, alla faccina di paperino col becco ondulato dall’angoscia, ma si pensa anche a una paura indecorosa, per qualcosa di piccolo, di insignificante.
Attacchi di panico: Clarabella issata su una sedia che urla scompostamente per un topolino scappato sotto al tavolo.
Ma panico, non è paura. La paura è un istinto anche salubre, che oggettivamente aiuta anche gli eroi, serve a farci discriminare i pericoli, e si focalizza intorno a qualcosa di razionale e preciso: la vigliaccheria è l’elusione di ciò che la paura provoca, mentre il coraggio è la diametralmente opposta – forza di andare assieme alla paura in una situazione di rischio: senza paura, non si da coraggio, si da idiozia. La paura come segnale, differente dalla paura come angoscia confusa, è in effetti uno dei primi trampolini da cui Freud si lancia per l’edificazione della struttura psicoanalitica.
Il panico invece, appare come una sorta di possessione e spesso e volentieri è la reazione a una serie di pensieri persecutori, dal carattere confuso ma anche per questo particolarmente terrorizzante. La persona di fronte a questo pensiero è spaventatissima e appunto viene scalciata fuori dalle sue capacità razionali, con anche una serie di sintomi di ordine fisico, che qualche volta inducono il paziente a pensare a un problema cardiaco: batte forte il cuore, ci si sentono mancare le gambe, qualche volta si arriva a svenire, si suda moltissimo, e si può tremare violentemente. Ma per il paziente, i sintomi visibili sono il meno, la parte tremenda è quello che vive dentro la testa, che è terrore e paralisi. Tutto questo lo rende molto vulnerabile, e spesso implica una consistente restrizione della vita personale: non si prendono mezzi per esempio, non si riesce a lavorare, la strada diventa pericolosa. La quotidianità diventa nemica e complicata.
Pure, tendo concepire gli attacchi di panico, come una delle sintomatologie più benevole e salubri di cui dispongano le persone, quasi un segno di benessere anziché di malessere. Mi sono fatta l’idea, anche se non si può dire certo a proposito di tutti, che spesso e volentieri questo tipo di disturbo aggredisce chi ha delle risorse per curarsi, e di più fare una vita coerente con i propri desideri ma non la fa, e il panico è l’avviso psichico che costringe una persona a guardarsi e prendere atto del fatto che si sta tradendo. Gli attacchi si costellano infatti intorno a un pensiero confuso persecutorio, che può dire molto sulla realtà esistenziale della persona purché se ne scavi la valenza metaforica. E’ come se la psiche scegliesse, con una certa frase, la minaccia di punizione che al soggetto può toccare per averla tradita: e allora alcuni vengono in stanza di analisi dicendo: io credo che sto impazzendo, altri dicono che temono di morire da un momento all’altro, altri che pensano di volersi suicidare, altri che temono di voler ammazzare, fino ai prestiti culturali più variegati – chi pensa per esempio di essere omosessuale, non perché sia davvero omosessuale ma perché viene da una famiglia omofobica. Le narrazioni che si costellano intorno al panico sono cioè come i sogni di inizio terapia, la strada maestra per entrare nel tradimento psichico, da cui l’attacco di panico in qualche modo potrebbe salvare – perché lo segnala. In questo senso io non riesco mai a prenderli sul serio come una patologia a se stante, quanto come un utile indicatore diagnostico di un assetto patologico che si sta organizzando che è più grave, da cui la parte sana di un soggetto si sta difendendo come può, lanciando cioè la sirena dell’allarme. (E’ quindi uno di quei casi in cui, una buona cura farmacologica è una mano santa, ma guai ad affidarsi solo a quella. Il disturbo per un po’ passa, poi o torna, o prende strada una sintomatologia franca di altra parrocchia e magari più rognosa. Lo dico, perché siccome rispetto ad altri problemi ha tutti quei fenomeni fisiologici che penalizzano la vita quotidiana, la tentazione del solo psicofarmaco rispetto alla psicoterapia è fortissima.)
Se leggiamo l’attacco di panico in questa forma – ci riesce più facile capire come mai sia un fenomeno che si presenta molto più frequentemente negli ultimi due decenni, che in passato – e naturalmente nell’occidente industrializzato piuttosto che in altre aree del mondo. A pensarci- ha molto in comune con la vecchia isteria, altro sintomo legato a un mondo e a un’epoca sia per alcuni comportamenti in comune che usano il corpo – il tremito, gli svenimenti (anche se l’isteria poi vantava altri fenomeni ben più eclatanti) sia perché anche quella era la forma semantica disperata di un tradimento dell’identità - come è stato chiarito dalla psicoanalisi femminista. L’isterica era la donna che usava una forma di follia con comportamenti spesso ipersessualizzati, per infrangere una normativa culturale che schiacciava il suo genere in destini non liberi, in cui la soggettività veniva strangolata. Alcune teoriche, ricordo un bellissimo saggio di Silvia Vegetti Finzi, identificavano in quelle impresentabili malate della Salpetriere, che spesso mostravano anche comportamenti eccessivamente sessualizzati, la declinazione femminile della follia foucoultiana, e gli scenari dei clinici che le utilizzavano per spiegare la psichiatria agli studenti, la prova della ghettizzazione e simbolizzazione a cui il sesso andava in contro nell’angosciosa interpretazione della sua Storia della Sessualità.
Nel nostro contesto attuale, il potere e le forze appaiono parcellizzati, e la debolezza del panico, è diventato un lemma che abita la sfera del lecito e del condiviso. Il sintomo è stato per secoli la fuga per pochi disperati che non riuscivano a passare nelle strettoie di un canone, oggi è una sorta di diritto che il corpo si prende e la mente concede di fronte alla possibilità di avere una seconda chance esistenziale, prima al tutto preclusa. Se abbiamo una nuova semantica psichiatrica “gli attacchi di panico” lo dobbiamo a una nuova costellazione di valori e di esperienze che colorano le nostre vite, e che ha a che fare con il diritto alla debolezza anche per il maschile, con il diritto alla forza anche per il femminile, con il lusso ma anche la terribile responsabilità di chiedere alla propria vita una sorta di prestazione. In un momento di relativa opulenza – da cui ci vanno cacciando, ma la cacciata non è ancora compiuta – il nuovo peccato originale è non lottare per la propria felicità.